Aristotele

Aristotele , in greco: Aristoteles, (Stagira, 17 giugno 384 a.C. – Calcide, 7 marzo 322 a.C.) è stato un filosofo greco antico, famoso per essere comunemente definito il "filosofo dell'immanenza".

Aristotele nacque nel 384-383 a.C. a Stagira, città macedone (oggi greca) della Calcidica. Si dice che il padre, Nicomaco, abbia vissuto presso Aminta, re dei Macedoni, prestandogli i servigi di medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale del Regno di Macedonia, Pella. Rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi ad Atarneo, cittadina dell'Asia Minore di fronte all'isola di Lesbo, dal tutore Prosseno, il quale, verso il 367 a.C., lo mandò ad Atene, per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa vent'anni prima.

Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è a Siracusa da un anno, su invito di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica per passare tre anni dopo alla dialettica.

A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette influenzare il giovane studente che, molti anni dopo, nell'Etica Nicomachea scriverà che i ragionamenti di Eudosso «avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: appariva di un'insolita temperanza, sembrando ragionare, nell'identificare il bene col piacere, non perché amante del piacere, ma perché pensava che la cosa stesse veramente così». Eudosso non condivideva la dottrina platonica delle idee, le teorie del piacere e delle sfere astrali.

Intorno al 360 a.C. il giovane Aristotele scrive la sua prima opera intitolata Grillo o Sulla retorica; in reazione a una serie di scritti di elogio - composti da alcuni retori ateniesi, fra i quali Isocrate, per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea - lo Stagirita polemizzava contro la retorica come mezzo per agire sugli affetti, sulla parte irrazionale dell'anima. Già Platone, nel Gorgia, aveva sostenuto che la retorica non era un'arte, né una scienza, ma semplicemente una eµpe???a, una pratica persuasiva che può avere successo solo sugli ignoranti. Il successo del Grillo nell'Accademia procurò ad Aristotele l'incarico di tenere un corso di retorica, nel quale, seguendo il Fedro platonico, sostenne che la retorica doveva fondarsi sulla dialettica. A tal proposito si è tramandato negli anni che egli esordì nella prima lezione con la frase « È cosa turpe tacere e lasciar parlare Isocrate». Che il destino del corso seguì le orme dell opera stessa è dimostrato dal fatto che il maggiore discepolo di Isocrate ritenne necesario sedare la "querelle" con un opera in quattro libri "Contro Aristotele", e che, come qualcuno con un certo fondamento ipotizza, lo stesso Isocrate si mosse rispondendo nell' "Antidosis" agli attacchi dello stagirita.

Scritto poco dopo il Grillo, il trattato Sulle Idee è andato perduto e pochi frammenti sono stati trasmessi da Alessandro d'Afrodisia. Vi si affrontava la difficoltà di intendere il rapporto tra idee e cose, concepito da Platone come partecipazione delle cose alle idee che da esse sono tuttavia separate.

Eudosso sosteneva che tra le idee e le cose non ci fosse né separazione, né partecipazione ma mixis, mescolanza: le idee e le cose sono mescolate tra loro. Aristotele non accetta la teoria eudossiana, che non risolve il problema, ma critica anche la teoria platonica della separazione, delle cui aporie lo stesso Platone era del resto ben consapevole, come mostra il suo dialogo Parmenide. Per Aristotele le idee non sono trascendenti ma sono immanenti, ossia sono cause formali delle cose.

Nel tentativo di superare un'altra difficoltà contenuta nella teoria delle idee le quali, essendo molteplici, hanno bisogno, secondo Platone, di essere giustificate da un principio unitario, Platone introdusse i principi dell'Uno (identificato con il Bene) e della Diade (il grande e il piccolo); il primo ha la funzione di principio formale e il secondo ha la funzione di principio materiale.

È probabile che le conclusioni del trattato aristotelico Sul Bene, scritto intorno al 358 a.C. e del quale rimangono pochi frammenti, fossero quelle esposte nella matura Metafisica (A 6, 987 b 6 e segg.): «Platone chiamò idee gli esseri diversi da quelli sensibili e disse che di tutte le cose sensibili si parla in dipendenza dalle idee e secondo le idee: infatti le cose molteplici che hanno lo stesso nome delle idee esistono per partecipazione [...] ma che cosa fosse la partecipazione o l'imitazione delle idee è un problema che [Platone e i pitagorici] lasciarono aperto. Inoltre Platone dice che, oltre alle cose sensibili e alle idee, esistono le cose matematiche, che sono intermedie, e differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne e immobili, e differiscono dalle idee per il fatto che ce ne sono molte simili tra loro, mentre ciascuna idea è unica in sé [...] Come principi, Platone poneva la Diade, cioè il grande e il piccolo, come materia, e poneva l'Uno come sostanza; dal grande e dal piccolo, per partecipazione all'Uno, si costituiscono le idee, che sono i numeri che nascono da quei principi [...] Platone sosteneva una tesi vicina a quella dei Pitagorici, e si poneva sulle loro posizioni, quando diceva che i numeri sono la causa della sostanza delle altre cose [...] egli ricorre soltanto a due cause, l'essenza e la causa materiale, perché le idee sono la causa dell'essenza delle altre cose, mentre l'Uno è causa dell'essenza delle idee».

Aristotele respinse dunque, già nel primo periodo della sua formazione, la teoria delle idee nella lunga elaborazione fatta da Platone ma, dalla meditazione su di essa, ne trasse la personale dottrina della causa formale e della causa materiale.

Nel 354 a.C., alla morte in guerra, presso Siracusa, dell'amico e compagno di studi Eudemo di Cipro, Aristotele scrisse, in forma consolatoria e non speculativa, un altro dialogo, pervenuto in frammenti, l' Eudemo o Sull'anima, nel quale, prendendo a modello il Fedone platonico, sosterrebbe la tesi dell'immortalità dell'anima razionale, come indicato nella forma pur problematica della posteriore Metafisica (? 3, 1070 a 24-26): «Se rimanga qualche cosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo».

Per l'Aristotele maturo, l'anima non è un'idea ma una sostanza informante il corpo: nell' Eudemo è invece netta è l'opposizione fra anima e corpo sicché lo Jaeger la considerava dimostrazione dell'adesione completa del giovane Aristotele al platonismo; i sostenitori della precoce presa di distanza dello Stagirita da Platone intendono invece questa dichiarata opposizione come dipendente dall'intento consolatorio del dialogo, nel quale Aristotele avrebbe volutamente accentuato il destino ultraterreno dell'anima.

In ogni caso, i frammenti dell' Eudemo non permettono di dedurre un'adesione alle dottrine platoniche delle idee separate dagli oggetti sensibili e della conoscenza fondata sulla reminiscenza.

Il Protreptico o Esortazione alla filosofia, conosciuto dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto intorno al 350 a.C.

Il Protreptico è un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele individua nell'essere umano la divisione fra anima e corpo: «una parte di noi è l'anima e una parte è il corpo, l'una comanda e l'altra è comandata, l'una si serve dell'altra e l'altra sottostà come uno strumento [...] Nell'anima ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato [...] dunque l'anima è migliore del corpo, essendo più adatta al comando, e nell'anima è migliore quella parte che possiede la ragione e il pensiero», una divisione non vista come opposizione, come nell' Eudemo, ma come collaborazione: il corpo è lo strumento dell'agire dell'anima, anzi della parte razionale dell'anima.

«Delle cose che sono generate, alcune sono generate dall'intelligenza e dall'arte, per esempio, la casa e la nave; altre sono generate non per arte ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle non generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso». Non vi è finalità nel caso ma vi è nell'arte e nella natura: la natura è l'ordine tendente a un fine, e il fine dell'uomo è la conoscenza.

La filosofia è sia buona che utile, ma la bontà va privilegiata rispetto all'utilità: «alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni [...] Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un'utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "Che cosa ci è giovevole? Che cosa ci è utile?". Colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla a uno che conosce ciò che è bello e buono né a uno che sappia riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante». È una polemica, questa, contro le posizioni di Isocrate che, nel suo Antidosis, scritto contro l'Aristotele del Grillo, attaccava una conoscenza che fosse priva di utilità pratica. Inoltre quest'opera, essendo certamente datata, è fondamentale per gli studi storiografici in quanto ci consente di creare un abbozzo cronologico di alcuni libri della "Metafisica" in base alla presenza (o meno) in essi di temi già trattati nel "Protreptico". Del resto, che fare filosofia sia per Aristotele comunque necessario lo dimostra il fatto che «chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio».

Il De Philosophia, pervenuto in frammenti, fu scritto intorno al 355 a.C. e si divide in tre libri: nel primo Aristotele definisce filosofia la conoscenza dei principi della realtà; nel secondo critica la dottrina platonica delle idee e delle idee-numeri; nel terzo espone la sua teologia.

Ribadisce la non trascendenza delle idee e nega le idee-numero o numeri ideali, introdotti dal tardo Platone: «se le idee sono un'altra specie di numero, non matematico, non potremmo averne alcuna comprensione; chi, fra noi, comprende un tipo di numero diverso?». È Cicerone (De natura deorum, 1, 13) a citare, criticamente, il terzo libro del De philosophia:: «Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia confonde molte cose dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità a una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e moti retrogradi, talora dice che dio è l'etere, non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come potere divino».

La dimostrazione della necessità e dell'immutabilità di Dio è fornita dalla testimonianza di Simplicio (De Coelo, 228): «dove c’è un meglio, c’è anche un ottimo: poiché, fra ciò che esiste, c’è una realtà superiore a un'altra, esisterà di conseguenza una realtà perfetta, che dovrà essere la potenza divina [...] e ne deduce la sua immutabilità». Puro pensiero e immutabile, Dio non può creare il mondo, che è anch’esso eterno, come riporta Cicerone (Tuscolane, 15, 42): «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera così eccellente» e attesta anche la concezione della divinità degli astri: «Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell'essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell'etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità».

Nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia viene chiamato Speusippo, nipote del grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi il più degno, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente alla guida dell'Accademia, per trasferirsi ad Atarneo, invitato dal tiranno della città, Ermia, dove già operavano altri due allievi di Platone, Erasto e Coristo. Nello stesso anno tutti e quattro si trasferiscono ad Asso, dove fondano una scuola alla quale aderiscono anche il figlio di Coristo, Neleo, e il futuro successore di Aristotele nella scuola di Atene, Teofrasto.

Nel 344 a.C. va a Mitilene, sull'isola di Lesbo, e v'insegna fino al 342, anno in cui è chiamato in Macedonia dal re Filippo perché faccia da precettore al figlio Alessandro. Da rilevare la continuità: Socrate è stato il maestro di Platone, Platone di Aristotele, e Aristotele di Alessandro Magno. Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia, il suo maestro Aristotele, che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpilli da cui ha avuto il figlio Nicomaco, torna forse a Stagira e, intorno al 335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Liceo, fonda una sua famosissima e celebrata scuola, chiamata Peripato - passeggiata, dall'uso istituito dallo Stagirita di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda.

Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno e ad Atene si manifestano apertamente i mai sopiti odi antimacedoni; Aristotele, guardato con ostilità per il suo legame con la corte macedone, è accusato di empietà: lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide, la città materna, dove muore l'anno dopo.

Diogene Laerzio (Vite, V, 11-16) riporta il testamento di Aristotele: «Andrà senz'altro bene, ma qualora capitasse qualcosa, Aristotele ha steso le seguenti disposizioni: tutore di tutti, sotto ogni aspetto, dev'essere Antipatro; però, Aristomene, Timarco, Ipparco, Diotele e Teofrasto, se è possibile, si prendano cura dei figli, di Erpillide [la sua convivente] e delle cose da me lasciate, fino all'arrivo di Nicanore. E al momento giusto, mia figlia [Piziade] sia data in sposa a Nicanore [...] Se invece Teofrasto vorrà prendersi cura di mia figlia, allora sia padrone lui [...]

I tutori e Nicanore, ricordandosi di me, si prendano cura anche di Erpillide, sotto ogni aspetto e anche se vorrà risposarsi, in modo che non sia data in sposa indegnamente, visto che è stata premurosa con me. In particolare, le vengano dati, oltre a quello che ha già ottenuto, anche un tallero d'argento e tre schiave, quelle che vuole, la schiava che già ha e lo schiavo Pirro. E se vorrà abitare a Calcide, le sia data la casa per gli ospiti vicino al giardino; se invece vorrà stare a Stagira, le sia data la mia casa paterna [...]

Sia libera Ambracide e le si diano, alle nozze di mia figlia, cinquecento dracme e la giovane serva che già possiede [...] Sia liberato Ticone quando mi figlia si dovesse sposare, e così anche Filone, Olimpione e il suo ragazzino. Non vendano nessuno dei giovani schiavi che attualmente mi servono, ma siano impiegati; una volta dell'età giusta, siano liberati, se lo meritano [...]

Ovunque sia costruita la mia tomba, là siano portate e deposte le ossa di Piziade, come lei stessa ordinò; dedichino poi anche da parte di Nicanore, se sarà ancora vivo - come ho pregato a suo favore - statue di pietra alte quattro cubiti a Zeus Salvatore e ad Atena Salvatrice a Stagira».

L'ontologia è la filosofia prima aristotelica che ha come oggetto l'ente (??, genitivo ??t??, in greco). Aristotele intende per ente tutto ciò che è, tutto ciò che esiste: sarà perciò ente un uomo, così come sarà ente il suo colore di pelle. Ovviamente fra i due enti sussiste una notevole differenza, però entrambi devono essere ritenuti tali, per questo il filosofo afferma che ente è un "pollachos legomenon", ossia, si può "dire in molti modi".

Il filosofo distingue fra i vari enti 10 categorie entro cui classificarli sulla base della loro differenza: sostanza, qualità, quantità, dove, relazione, agire, patire, avere, giacere, quando. Le 10 categorie possono anche essere definite generi massimi, poiché permettono la completa classificazione degli enti. Non devono essere confuse con i 5 generi sommi platonici perché se il fondatore dell'Accademia cercò delle categorie cui partecipassero tutte le idee, Aristotele cerca delle categorie cui gli enti partecipino in base alla loro diversità, non esiste infatti nessuna categoria a cui tutti gli enti tangibili partecipino, proprio perché non era quello della reductio ad unum (l'omologazione, il confluire di tutti gli oggetti di studio in un unico grande calderone) il suo fine.

Il genere massimo di cui il filosofo si occupa di più è quello di sostanza, classificando sostanza prima e sostanza seconda. La prima è relativa ad un singolo essere, un determinato uomo o un certo animale, una pianta, e tutto ciò che ha sussistenza autonoma. La sostanza seconda, invece, è costituita da sostantivi generici che specificano meglio il "ti esti" (greco t? ??t?), "il che cos'è" la sostanza prima. Nella frase «il Sole è un astro» Sole, nome proprio e specifico di una stella, è sostanza prima, mentre astro, nome generico che ne specifica l'essenza, la natura, è sostanza seconda.

Relativamente alle altre categorie, esse si devono definire "accidenti" in quanto non hanno vita indipendente, se non nel momento in cui ineriscono alla sostanza. Il giallo, per esempio, non è un ente autonomo come un uomo. Perciò nella frase «il Sole è giallo», Sole è sempre sostanza prima, mentre giallo è accidente della sostanza, della categoria della qualità.

Lo stesso filosofo afferma che è inutile ogni scienza che si occupa di enti che riportano le stesse caratteristiche: la matematica studia gli enti astratti deducibili solo con l'astrazione( in numeri), la fisica gli elementi naturali della physis (greco f?s??), l'ontologia, invece, studia gli enti. Ma in base a che cosa gli enti sono accomunati? Non certo il fatto di esistere, perché, come già detto, il filosofo nega a priori l'esistenza di una categoria che collochi in se tutti gli enti (la categoria dell'essere che, infatti, li accomunerebbe tutti). Il termine ente è, comunque, una parola equivoca, proprio come "salutare". Esso vuol dire sano o indicare l'azione del cordiale saluto, tutto comunque richiama allo stesso concetto di salute. "Ente" ha vari significati (è un "pollachos legomenon", ma tutte le valenze che assume richiamano inevitabilmente in un modo o nell'altro il concetto di sostanza. Gli enti perciò, tutti, sono studiati dall'ontologia in quanto tutti ineriscono alla sostanza.

La dialettica, in Aristotele, è la tecnica con la quale uscire vittoriosi da una discussione. Questo successo deriva dal prevalere con la propria tesi su quella sostenuta dall'avversario, nel rispetto di premesse su cui ci si è messi d'accordo prima dell'inizio del confronto: difatti, la confutazione, l'aver ottenuto ragione e quindi l'aver vinto, si basava proprio sul portare l'interlocutore ad autocontraddirsi, mostrando dunque come la sua tesi, se sviluppata, avrebbe condotto a risultati illogici nei confronti delle premesse iniziali, considerate vere da entrambi. Certo era necessario che le premesse fossero considerate vere dal pubblico che assisteva al confronto, pertanto non di rado si sceglieva di accordarsi su premesse che fossero ritenute vere dai membri più influenti della società, così che essi potessero influenzare anche l'opinione altrui. La tecnica dialettica necessitava di un'ottima conoscenza delle parole e dei modi di unirle in proposizioni e, ancora, in periodi, pertanto il filosofo postula alcune teorie, quali quella della proposizione e quella del sillogismo, che permettono di capire come debba funzionare nei vari casi la parola. Prima di queste teorie, si sofferma sulla spiegazione dell'esistenza di parole univoche ed equivoche, ovvero da uno o più significato: deve essere la loro conoscenza accurata il primo necessario requisito per l'esperto di dialettica.

Una proposizione è un insieme di termini (parole) i quali danno vita a un'affermazione, un giudizio. Questo può essere vero o falso, in base al riscontro con la realtà, mentre i singoli termini non possono essere veri o falsi se considerati singolarmente; tuttavia non tutte le proposizioni sono vere o false: preghiere, invocazioni, ordini, sono destinate all'ambito poetico e di esse Aristotele non si occupa. Invece si occupa delle frasi a cui sole può essere riconosciuta la possibilità di essere vere o false, chiamate categoriche, o dichiarative, o apofantiche. Le proposizioni categoriche possono avere qualità affermativa o negativa e quantità universale (quando il soggetto è un genere e vi sono inclusi tutti gli appartenenti), particolare (si fa riferimento solo a una parte degli enti di un genere) o singolari (il soggetto è un individuo singolo), in base alla maggiore o minore generalità del soggetto. Aristotele non si preoccupa delle proposizioni singolari, soffermandosi solo sulle proposizioni affermative e negative, universali e particolari. Combinando questi tipi di proposizioni, risultano esserci quattro tipi di proposizioni-modello per il filosofo, le quali sono universale affermativa, universale negativa, particolare affermativa e particolare negativa.

Aristotele tratta del concetto d'amicizia nell'ottavo e nel nono libro dell'Etica Nicomachea. Il filosofo comincia facendo l'analisi dei diversi fondamenti dell'amicizia: l'utile, il piacere e il bene; da questi derivano le tre tipologie d'amicizia: quella di utilità, di piacere e di virtù. L'amicizia di utilità è tipica dei vecchi, quella di piacere degli uomini maturi e dei giovani; gli amici in queste due tipologie non si amano di per se stessi ma solamente per i vantaggi che traggono dal loro legame: per questo motivo questi tipi di amicizia, basandosi sui bisogni e desideri umani, che sono volubili, si dissolvono e si creano con facilità. L'unica vera amicizia è quella di virtù, stabile perché si fonda sul bene, caratteristica degli uomini buoni. L' amicizia di virtù presuppone due cose fondamentali: l'uguaglianza fra gli amici (intelligenza, ricchezza, educazione ecc.) e la consuetudine di vita. L'amicizia si distingue dalla benevolenza, che può non essere corrisposta e dall'amore, perché nell'amore entrano in gioco fattori istintuali. Tuttavia Aristotele non esclude che un rapporto d'amore possa trasformarsi poi in una vera e propria amicizia. La philia aristotelica esprime il legame tra amicizia e reciprocità, fondato sul riconoscimento dei meriti e sul desiderio reciproco del bene per l'altro.

Aristotele tratta nelle sue opere (in particolare nella Fisica) della conformazione dell'universo. Aristotele propone un modello geocentrico, cioè che pone la Terra al centro dell'universo. Fatale errore che, per l'autorevolezza del maestro, durerà per 1800 anni, sino a Nicolò Copernico.

Secondo Aristotele, la Terra era formata da quattro elementi: la terra, l'aria, il fuoco e l'acqua. Le varie composizioni degli elementi costituivano tutto ciò che c'era sulla terra. Ogni elemento aveva due delle quattro caratteristiche (o "attributi") della materia: il secco (terra e fuoco), l'umido (aria ed acqua), il freddo (acqua e terra) e il caldo (fuoco e aria). Ogni elemento aveva la tendenza a rimanere o a tornare nel proprio luogo naturale, che per la terra e l'acqua è il basso, mentre per l'aria e il fuoco è l'alto. La Terra come pianeta, quindi, non può che stare al centro dell'universo, poiché è formata dai due elementi tendenti al basso, e il "basso assoluto" è proprio il centro dell'universo.

Per quanto riguarda ciò che esiste oltre la Terra, Aristotele lo riteneva fatto di un quinto elemento (o essenza): l'etere. L'etere, che non esiste sulla terra, sarebbe privo di massa, invisibile e, soprattutto, eterno ed inalterabile: queste due ultime caratteristiche sanciscono un confine tra i luoghi del mutamento (la Terra) e i luoghi immutabili (il cosmo).

Aristotele credeva che i corpi celesti si muovessero su sfere (in numero di cinquantacinque, ventidue in più delle 33 di Callippo). Oltre la Terra c'erano, in ordine, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, la sfera delle stelle fisse e, infine, il primo mobile, cioè il "motore", della cui natura peraltro Aristotele ebbe qualche difficoltà a dare una definizione precisa, che metteva tutte le altre sfere in movimento. Identificabile con la divinità suprema (le altre divinità stavano all'interno del cosmo), esso è la causa prima di tutti i moti celesti.

Aristotele era convinto dell'unicità e della finitezza dell'universo: l'unicità perché se esistesse un altro universo sarebbe composto sostanzialmente delle medesime essenze del nostro e quindi tenderebbe, per i luoghi naturali, ad avvicinarsi al nostro e perciò con esso si ricongiungerebbe, ciò che prova l'unicità del nostro universo; la finitezza perché in uno spazio infinito non potrebbe esserci un centro, ciò che contravverrebbe alla teoria dei luoghi naturali.

Aristotele ha fondato la biologia come scienza empirica, compiendo un importante salto di qualità (almeno stando alle fonti che ci sono rimaste) nell'accuratezza e nella completezza descrittiva delle forme viventi, e soprattutto introducendo importanti schemi concettuali che si sono conservati nei secoli successivi.

L' Historia animalium contiene la descrizione di 581 specie diverse, osservate per lo più durante la permanenza in Asia Minore e a Lesbo. Questi dati biologici vengono organizzati e classificati nel De partibus animalium, nel quale vengono introdotti concetti fondamentali come quello di viviparità e oviparità, e sono impiegati criteri di classificazione delle specie in base all'habitat o a precise caratteristiche anatomiche, che sono in gran parte rimasti inalterati fino a Linneo. Un'altrettanto importante conquista intellettuale è lo studio sistematico di quella che oggi chiamiamo anatomia comparata, che permette ad esempio ad Aristotele di classificare Delfini e Balene tra i mammiferi (essendo essi dotati di polmoni e non di branchie come i pesci).

Il De generatione animalium si occupa del modo in cui gli animali si riproducono. In quest'opera la generazione viene interpretata come trasmissione della forma (di cui è portatore il seme maschile) alla materia (rappresentata dal sangue mestruale femminile). Secondo Aristotele le specie sono eterne ed immutabili, e la riproduzione non determina mai cambiamenti nella sostanza, ma solo negli accidenti dei nuovi individui. Molto interessante è lo studio che Aristotele compie sugli embrioni, grazie al quale egli comprende che essi non si sviluppano attraverso la crescita di organi già tutti presenti fin dal concepimento, ma con la progressiva aggiunta di nuove strutture vitali.

Alcuni limiti della biologia aristotelica (come la generale sottovalutazione del ruolo del cervello, che Aristotele credeva destinato a raffreddare il sangue) furono superati con la scoperta (avvenuta in epoca ellenistica) del sistema nervoso, ma in molti altri casi per arrivare ad un superamento della biologia aristotelica si è dovuto attendere lo sviluppo scientifico del pieno Settecento.
 

 

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Tratto da: Aristotele. Wikipedia, L'enciclopedia libera.