Dante Alighieri

Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321) è stato un poeta, scrittore e politico italiano. È considerato il primo e più grande poeta della lingua italiana e per questo definito "il sommo poeta", o "il vate" (ovvero "il profeta"). Per aver tenuto a battesimo l'utilizzo letterario della lingua volgare viene anche considerato Il Padre della lingua italiana. La sua opera principale, la Divina Commedia, è il maggior poema della letteratura italiana ed è considerata uno dei capolavori della letteratura mondiale.

Ebbe una vita per molti versi travagliata e morì mentre si trovava esiliato dalla sua città natale.

Il suo nome era, secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, un ipocorismo di "Durante":

Nei documenti, al nome di Dante può seguire il patronimico Alagherii o il gentilizio de Alagheriis, mentre la variante Alighieri si afferma solo con l'avvento di Boccaccio.

La data di nascita di Dante è sconosciuta, anche se viene in genere indicata attorno al 1265, da alcune allusioni autobiografiche fatte nella Vita Nova, nell'Inferno (Nel mezzo del cammin di nostra vita, secondo altri passi di sue opere viene indicato con i 35 anni, ed essendo il viaggio immaginario nel 1300 si risalirebbe al 1265) e nel Purgatorio. Alcuni versi del Paradiso ci dicono poi che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno.

Nacque comunque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi che si divisero poi in "Guelfi bianchi" e "Guelfi neri".

Dante diceva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inferno Canto XV, 76), ma il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Paradiso Canto XV, 135), vissuto intorno al 1100.

Suo padre, Aleghiero o Alaghiero di Bellincione, era un Guelfo, ma non patì vendette dopo che i Ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti. Questo perché la sua famiglia non godeva di una particolare popolarità da considerarsi una minaccia.

La madre di Dante era Donna Bella degli Abati; "Bella" corrisponde a Gabriella, ma significa anche "bella d'aspetto" mentre Abati era il nome di un'importante famiglia. Ella morì quando Dante aveva 5 o 6 anni ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. (È incerto se realmente l'abbia sposata, poiché i vedovi avevano limitazioni sociali in materia). La donna mise al mondo due bambini: il fratello di Dante, Francesco e sua sorella Tana (Gaetana).

Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui essa apparteneva (i Donati) era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale, che in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri.

Dante da Gemma ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia; ma molti bambini finsero di essere suoi figli naturali. Antonia divenne suora con il nome di Sorella Beatrice. Si dice fosse figlio suo anche un certo Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia, che compare come testimone in un atto del 21 ottobre del 1308 a Lucca.

A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l'entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica, permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, egli si immatricolò all'Arte dei Medici e Speziali.

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, perché i verbali delle assemblee sono andati perduti, comunque attraverso altre fonti si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei Priori, cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta come ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.

Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico Papa Bonifacio VIII. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal papa per ridimensionare la potenza della parte dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato ed era in carica durante il difficile momento quando il cardinale mosse un esercito da Lucca contro Firenze, venendo però bloccato ai confini dello stato fiorentino.

Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana, i capi e le "teste calde" delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (presto essi tornarono alla spicciolata), ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri che stavano per approfittarsi della situazione quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, compreso Dante, sia l'odio della parte nemica, che la diffidenza degli "amici", e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.

Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come teorico "paciere" (ma conquistatore di fatto), la Repubblica spedì a Roma un'ambasceria con Dante stesso, accompagnato da Maso Minerbetti e il Corazza da Signa.

Dante si trovava quindi a Roma, trattenuto oltre misura proprio da Bonifacio, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano, uccidendo o esiliando tutti i guelfi Bianchi. Dante fu così raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma, e non rivide mai più Firenze.

Durante l'esilio, Dante fu ospite di varie corti e famiglie dell'Italia centro-settentrionale, fra cui i ghibellini Ordelaffi, signori di Forlì, dove probabilmente si trovava quando Enrico VII entrò in Italia. In particolare, falliti i tentati colpi di mano del 1302, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò, insieme a Scarpetta degli Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì, un nuovo tentativo di rientrare in Firenze. L'impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, un altro forlivese (nemico degli Ordelaffi), Fulcieri da Calboli, riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Puliciano.

Dopo ciò, Dante, deluso, anche se tornò a Forlì ancora nel 1310-1311 e nel 1316 (data incerta, quest'ultima), decise di fare "parte per se stesso" e di non contare più sull'appoggio dei ghibellini per rientrare nella sua città.

Morì il 14 settembre del 1321 a Ravenna, di ritorno da un'ambasceria a Venezia, allora in attrito con Ravenna ed in alleanza con Forlì: gli storici pensano che sia stato scelto Dante per quella missione, in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare meglio una via per comporre le divergenze.

Poco si sa circa gli studi di Dante; si presume che egli abbia studiato in casa. Alcuni ritengono che abbia frequentato l'Università di Bologna, ma non vi sono prove certe di questo. Quasi sicuramente studiò la poesia toscana di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta Orbicciani (cfr. Purgatorio, Canto XXIV, 52-62) e, probabilmente con l'influenza di Guido Guinizelli, anche la Scuola poetica siciliana, una corrente letteraria attiva alla corte di Federico II che si esprimeva in volgare, la quale proprio allora stava cominciando ad essere conosciuta in Toscana e che aveva in Giacomo da Lentini (il famoso "Notaro" di cui alla citazione precedente) il suo maggior esponente. Certamente, oltre al volgare italiano e al latino (la lingua franca di quell'epoca), padroneggiava il provenzale, infatti inserì alcuni versi in questa lingua nel Purgatorio (XXVI, 140-147).

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune sue opere, possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in Latino, come i trattati di Albertano da Brescia.

Grazie ai suoi interessi, Dante scoprì i menestrelli ed i poeti provenzali e la cultura latina, professando una devozione particolare per Virgilio:

« Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu'io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore »
(Inferno I, 85-87)

Dovrebbe essere sottolineato che durante il medioevo le rovine dell'Impero Romano decaddero definitivamente, lasciando dozzine di piccoli stati, così la Sicilia era tanto lontana (culturalmente e politicamente) dalla Toscana quanto lo era la Provenza: le regioni non condividevano una lingua, una cultura, o collegamenti facili. È possibile supporre che Dante fosse per il suo periodo un intellettuale aggiornato, acuto e con interessi, come si direbbe oggi, internazionali.

A 18 anni, incontrò Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e subito dopo Brunetto Latini; insieme essi divennero i capiscuola del Dolce Stil Novo. Brunetto Latini successivamente fu ricordato nella Divina Commedia (Inferno, XV, 82), per quello che aveva insegnato a Dante: non come un semplice maestro, ma uno dei più grandi luminari che segnò profondamente la sua carriera letteraria e filosofica: maestro di retorica, abile compilatore di trattati enciclopedici, dovette iniziarlo alla letteratura cortese provenzale e francese, scrivendo il Tresor proprio in Francia. Brunetto mette in evidenza il rapporto tra gli studi di grammatica (latino) e di retorica e la filosofia amorosa cortese, gettando le basi degli interessi speculativi del futuro Dante.

Altri studi sono segnalati, o sono dedotti dalla Vita Nuova o dalla Divina Commedia, per ciò che riguarda la pittura e la musica. Quando aveva 9 anni incontrò Beatrice Portinari, la figlia di Folco Portinari. Si è detto che Dante la vide soltanto una volta e mai le parlò (ma altre versioni sono da ritenersi ugualmente valide). Più interessante è però, al di là degli scarni dati biografici che ci sono rimasti, è la Beatrice divinizzata, e dunque sublimata della Vita Nuova : l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante, lo studio psicologico che compie il poeta sul proprio innamoramento. L'introspezione psicologica, l'autobiografismo, ignoto al medioevo, guardano già al Petrarca e più lontano ancora, al Rinascimento. Il Nome Beatrice, assumerà soprattutto nella Divina Commedia la sua reale importanza, in quanto, etimologicamente parlando significa "Portatrice di Beatitudine", tanto che solo questa figura potrà condurre Dante lungo il percorso del Paradiso.

È difficile riuscire a capire in cosa sia consistito questo amore, ma qualcosa di estremamente importante stava accadendo per la cultura italiana: è nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo e condurrà i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore, in un modo mai così enfatizzato prima.

L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione della sua concezione del dolce stil novo, nuova concezione dell'amor cortese sublimata dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi), per poi approdare alla filosofia dopo la morte dell'amata, che segna simbolicamente il distacco dalla tematica amorosa e l'ascesa del Sommo Poeta verso la sapienza, luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso della Divina Commedia.

Quando Beatrice morì nel 1290, Dante cercò di trovare un rifugio nella letteratura latina. Dal Convivio sappiamo che aveva letto il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone. Egli allora si dedicò agli studi filosofici presso le scuole religiose come quella Domenicana in Santa Maria Novella. Prese parte alle dispute che i due principali ordini monastici (Francescani e Domenicani) pubblicamente o indirettamente tennero in Firenze, gli uni spiegando la dottrina dei mistici e di San Bonaventura, gli altri presentando le teorie di San Tommaso D'Aquino. La sua "eccessiva" passione per la filosofia gli sarebbe stata successivamente rimproverata da Beatrice nel Purgatorio.

Dante fu anche soldato, e l'11 giugno 1289 combatté nella battaglia di Campaldino che vide contrapposti i cavalieri fiorentini ad Arezzo; successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) quando questi si trovava a Firenze. Dante stesso cita Carlo Martello d'Angiò nella Divina Commedia.

 

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Tratto da: Dante Alighieri. Wikipedia, L'enciclopedia libera.