Sören Kierkegaard

Søren Aabye Kierkegaard (5 maggio 1813 - 11 novembre 1855), nato dal ricco commercialista Michael Pedersen e dalla sua seconda moglie Ane Lund, fu un filosofo danese del XIX secolo, ed è considerato all'unanimità il padre dell'esistenzialismo.

Kierkegaard visse la quasi totalità della sua esistenza a Copenaghen, dove nacque e morì. La sua filosofia prese corpo da un doppio rifiuto, ossia il rifiuto della filosofia hegeliana e l'allontanamento dal vuoto formalismo della Chiesa danese.

Fu l'ultimo di sette fratelli, cinque dei quali morirono quando lui era ancora ventenne. Dagli anziani genitori ricevette una rigida educazione pietista, improntata al pessimismo ed al sentimento del peccato.

La tragedia dei fratelli e l'educazione ricevuta fecero di Kierkegaard un uomo triste e votato all'introspezione, nonché ai facili e penosi sensi di colpa.

Kierkegaard era assai cagionevole di salute, tant’è vero che egli chiamò, usando un’espressione usata anche da S. Paolo, "spina nella carne" un suo misterioso dolore fisico.

Fu educato dal padre anziano in un'atmosfera di severa religiosità. Il padre gli inculcò un forte senso del peccato. Kierkegaard arrivò addirittura a pensarsi soggetto a una maledizione divina, per una imprecisata "grave colpa" commessa in passato da suo padre.

Infatti, la morte prematura della moglie e di cinque dei suoi sette figli, avevano convinto il padre di Kierkegaard che egli aveva attirato su di sé l’ira divina. Forse, la colpa del padre era stata quella di aver maledetto Dio a 11 anni per la sua iniziale povertà di pastorello; o forse tale colpa fu l’aver sedotto la domestica pochi mesi dopo la morte della sua prima moglie. D’altra parte, egli aveva sposato la ragazza compromessa, che poi sarà la madre di Kierkegaard.

Studiò teologia nell'università della sua città natale, con la prospettiva, poi non realizzata, di diventare pastore protestante.

Nel 1840, si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen, ma dopo un anno scarso, ruppe il fidanzamento. Forse Kierkegaard era attirato da una vocazione di consacrazione religiosa, o forse non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che egli avrebbe formato insieme a lei. Regina Olsen si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che peraltro gli procurò rimpianto per tutta la vita.

Kierkegaard condusse un’esistenza appartata, anche a causa del suo temperamento scontroso e poco socievole. Gli unici fatti rilevanti della sua vita furono gli attacchi che gli vennero mossi dal giornale satirico Il corsaro, e la polemica contro l’opportunismo e il conformismo religioso che egli condusse, nell’ultimo anno della sua vita, in una serie di articoli pubblicati nel periodico Il momento. Su Il corsaro, Kierkegaard apparve più volte ritratto in maligne caricature e fu aspramente preso in giro. Il filosofo ne rimase profondamente amareggiato. Quanto alla polemica che egli condusse contro il conformismo religioso, Kierkegaard accusava la Chiesa danese di essere mondana e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo.

Kierkegaard contesta Hegel, sostenendo che l'esistenza è sempre del singolo, e non può essere ricondotta a sistema. Rimprovera agli intellettuali la scarsa coerenza tra parola e azione, mentre ammira Socrate e Cristo per la loro coerenza.

Secondo Kierkegaard la dimensione esistenziale dell'uomo è segnata dall'angoscia e dalla disperazione. La disperazione nasce da un rapporto serio dell'uomo con sé stesso, mentre l'angoscia nasce da un rapporto serio dell'uomo con il mondo, e consiste nel senso di inadeguatezza che nasce dall'impossibilità dell'uomo di essere autosufficiente senza Dio.

La filosofia di Kierkegaard si pone in netta antitesi con quella di Hegel. Il filosofo tedesco, infatti, riconduce ogni tipo di fenomeno, ideale e reale nell'ambito della dialettica interna e storica dello Spirito Assoluto, nella sua infinita autorealizzazione. Kierkegaard, invece, afferma che unica realtà non è l'astratta Ragione universale, ma il singolo, cioè l'individuo particolare.

Kierkegaard, dunque, rivaluta lo spirito individuale, l’io empirico, che era considerato da Hegel un semplice mezzo per l'affermazione dello Spirito universale, e contrappone alle tesi hegeliane la concezione dell'uomo propria del cristianesimo, che assegna un valore infinito proprio al "piccolo io" di ciascuno di noi. Infatti il cristianesimo vuol rendere questo "piccolo io" eternamente beato. Kierkegaard pensa che Hegel abbia dimenticato di essere un uomo singolo. Kierkegaard ironizza sul professore hegeliano che si affanna a spiegare tutta la realtà, riducendola a un sistema logico, ma non si ricorda neppure come si chiama, e dimentica di essere un uomo singolo, un individuo.

Secondo Kierkegaard le verità importanti sono le "verità soggettive", cioè quelle che riguardano l’individuo, che gli dicono a che cosa egli è destinato, qual è lo scopo e il senso della sua vita. Non sono invece importanti le "verità oggettive" circa lo Spirito assoluto, la Ragione universale e l’Umanità, cioè circa l’uomo in generale di cui parlava Hegel.

Kierkegaard rimprovera poi a Hegel l’identificazione panteista fra uomo e Dio, e quindi l’incapacità di cogliere l’infinita differenza qualitativa, il vero e proprio abisso, che separa il singolo uomo dalla divinità.

Che l'uomo reale sia un singolo, non significa, però, secondo Kierkegaard, che ogni uomo viva come singolo, realizzando veramente sé stesso, senza lasciarsi condizionare. Spetta all'uomo cercare di realizzare la sua singolarità, sforzandosi di non vivere come vive la folla, la massa. Essere un singolo significa ribellarsi a ciò che è generale, alle norme esterne accettate per consuetudine. Questo non significa che Kierkegaard neghi valore all'etica o alle leggi: ciò che richiede all'uomo è di interiorizzarle nella sua coscienza, di comprenderne la bontà e di accettarle con convinzione e non semplicemente perché così sta scritto.

Il singolo su cui tanto insiste Kierkegaard è l'esistente concreto. Solo al singolo, cioè all’individuo, spetta l’esistenza. L’esistenza, come già sosteneva Aristotele, non compete alle essenze universali (per es. al concetto di "umanità") che sono soltanto delle entità logiche pensate ma non esistenti. L’esistenza compete solo all’individuo nella sua specifica concretezza, cioè a Pietro, Paolo, ecc. Kierkegaard intende porre l'accento proprio su questa "esistenza concreta" che caratterizza il singolo, e conduce una vera e propria analisi dell’esistenza.

Esistere significa "ex-sistere", cioè "stare fuori" dall'essenza universale (o specie), distinguersi da essa. Il singolo uomo esistente si distingue dalla specie a cui appartiene perché, pur godendo degli attributi generali della sua specie (e cioè dell’umanità), possiede anche aspetti particolari e irripetibili che lo caratterizzano individualmente, e che non si possono dedurre logicamente dalle caratteristiche generali della sua essenza universale. Questo discorso vale anche per il singolo animale o per il singolo vegetale, perché anch’essi si distinguono per le loro caratteristiche individuali dalla specie a cui appartengono.

Tuttavia, Kierkegaard sottolinea due differenze che sussistono fra l’esistenza di un uomo e quella di qualsiasi altro essere vivente.

In primo luogo, mentre nel mondo vegetale e animale è più importante la specie dell’individuo che esiste concretamente, nel mondo umano l’individuo è più importante della specie a cui appartiene. Infatti, l’uomo singolo non può essere sacrificato alla specie, dato che ogni essere umano è una creatura forgiata a immagine e somiglianza di Dio.

In secondo luogo, ciò che contraddistingue l’esistenza dell’uomo singolo rispetto agli altri esseri viventi è la possibilità di scegliere e la libertà di decidere. Il comportamento dei singoli animali è condizionato necessariamente dall’istinto. Invece i singoli uomini, nel corso della loro vita, si trovano sempre di fronte a più possibilità alternative fra le quali sono totalmente liberi di decidere. L’uomo, in ogni istante, può scegliere A oppure non A. Ma la libertà è anche responsabilità individuale di fronte al bene e al male. E da questo punto di vista la possibilità genera nell’uomo il caratteristico sentimento dell’angoscia.

L'attività letteraria di Kierkegaard non ebbe altro fine che quello di chiarire le alternative fondamentali che si aprono all'individuo, e tra le quali egli sceglie liberamente.

Per Kierkegaard la vita può essere di tre tipi. Non si tratta di tappe consequenziali: si può vivere tutta la vita in una sola dimensione, si può progredire ma anche regredire. Il filosofo però non si riconosce in nessuna di queste tre dimensioni.

Nell'opera Aut-aut, Kierkegaard presenta l'alternativa fra due forme fondamentali di vita: quella estetica e quella etica. Nell'opera Timore e tremore emerge la terza forma fondamentale: quella religiosa.

Secondo Kierkegaard, il passaggio da una forma di vita all'altra non avviene per necessità dialettica come in Hegel. Per Hegel, dialetticamente e necessariamente, cioè in modo inevitabile, l'uomo si costituisce prima come essere etico nello Stato; poi, sempre per necessità dialettica, si costituisce come essere estetico, religioso, e infine filosofico. Invece, secondo Kierkegaard, questo passaggio avviene per libera scelta. Inoltre, per Hegel la dialettica fa sì che nel terzo momento i primi due siano conservati (anche se superati). Invece, per Kierkegaard, attività estetica, etica e religiosa si presentano al singolo come possibilità tra le quali egli deve scegliere, cosicché, scegliendo l'una, è costretto a rifiutare le altre. Fra di esse c’è un abisso e un salto. La dialettica di Kierkegaard fra le forme alternative di vita è "qualitativa" e non "quantitativa" come quella di Hegel: non ammette sintesi, cioè conciliazione e armonia fra gli opposti, ma solo passaggio brusco da un opposto all'altro, e i due opposti si escludono a vicenda senza conciliarsi. Per esempio, tra la vita religiosa e le altre forme di esistenza non c’è mediazione: non è possibile essere cristiani "fino a un certo punto". O lo si è interamente o non lo si è. La dialettica quantitativa hegeliana si può riassumere nella formula "et-et", mentre la dialettica qualitativa kierkegaardiana nella formula "aut-aut", che sta a indicare la scelta esclusiva di uno degli opposti.

Lo stadio estetico è quello in cui l'uomo manifesta indifferenza nei confronti dei princìpi e dei valori morali. L'esteta non crede nelle leggi etiche tradizionali. Ritiene invece fondamentali e primari i valori della bellezza e del piacere e a essi subordina tutti gli altri valori (anche e soprattutto quelli morali). L’esteta è teso solo al soddisfacimento di sempre nuovi desideri e considera il mondo come uno spettacolo da godere. Si lascia vivere momento per momento. Vive nell’istante, cioè vive per cogliere tutto ciò che vi è d’interessante nella vita, trascurando tutto ciò che è banale, ripetitivo e meschino. Il suo motto è la massima del poeta latino Orazio: carpe diem (cioè "cogli l’oggi", vivi alla giornata e credi nel domani il meno possibile).

Il tipo dell'esteta è per Kierkegaard il "seduttore", rappresentato dal personaggio di Don Giovanni, il leggendario cavaliere spagnolo prototipo del libertino, immortalato nell'omonima opera di Mozart. Don Giovanni non si lega a nessuna donna particolare perché vuole poter non scegliere: il seduttore è sciolto da ogni impegno o legame e vive nell'attimo, cercando unicamente la novità del piacere. Don Giovanni seduce migliaia di donne senza riuscire ad amarne davvero nessuna. Don Giovanni è la figura che incarna la sensualità, l’erotico. Non a caso, questo personaggio è immortalato dalla musica. La musica, infatti, è la più sensuale delle arti, perché si rivolge direttamente ai sensi, senza passare attraverso il concetto, la parola.

Ma Kierkegaard esprime un giudizio negativo sull'esteta. Infatti, chi non sceglie e si dedica solo al piacere cade ben presto nella noia, cioè nell’indifferenza nei confronti di tutto, perché, non impegnandosi mai, non vuole profondamente e sentitamente nulla. Infatti, la noia è uno stato esistenziale che sorge quando una persona è affettivamente o progettualmente demotivata. Inoltre l’esteta, se si ferma, cioè se smette di ricercare il piacere e riflette lucidamente su sé stesso, è assalito dalla disperazione. Poiché ha scelto di non scegliere, poiché non ha accettato di fare delle scelte, non si è impegnato in un programma di vita, egli non è nessuno. È nulla. Ha rinunciato a costruirsi un'identità, una personalità definita. Avverte così, con disperazione, il vuoto della propria esistenza, senza senso e senza centro. La disperazione è il terrore del vuoto, del non essere altro che niente.

Consapevole della disperazione connessa alla vita estetica, l'uomo può decidere di cambiare tipo di esistenza, optando per la vita etica. Nello stadio etico, l'uomo vive conformemente a ideali morali e cerca di assumersi delle responsabilità. Sceglie fra il bene e il male e accetta i compiti seri della famiglia, del lavoro, dell'impegno nella società, dell'amor di patria e affronta serenamente i sacrifici necessari per restare fedele a tali compiti.

Kierkegaard, nell’illustrare questo tipo di vita, ha presente il momento dell’eticità descritto da Hegel, cioè il momento in cui lo spirito oggettivo si incarna nelle istituzioni della famiglia, della società civile e dello stato.

La figura del "marito" (cioè dell’uomo che ha scelto una sola donna e ha accettato i doveri del matrimonio) è, per Kierkegaard, l'emblema dello stadio etico, contrapposto a quello del seduttore, che è l’emblema dello stadio estetico. Il marito è rappresentato nell'opera Aut-aut dall'assessore Guglielmo, protagonista della seconda parte dell’opera. L'assessore Guglielmo, che ha scelto la vita etica, è un marito fedele, un professionista onesto e laborioso e un funzionario esemplare. Mentre il seduttore vive sempre nell'istante, ma perde sé stesso, il marito, che ha fatto delle scelte etiche e programma in base a esse il suo futuro, sembra edificarsi una personalità. Appare pacificato, tranquillo.

Ma anche la vita etica si conclude con uno scacco. Infatti, l’eticità è spesso caratterizzata dal convenzionalismo e dal conformismo. Nell'adesione a una legge generale, l'uomo che vive eticamente non riesce a valorizzare a pieno la sua autentica individualità, rischia di perdersi nell'anonimato, di non trovare davvero sé stesso più intima e profonda personalità. Chi sceglie la vita etica e si assume delle responsabilità sociali, chi diventa, per esempio, giudice o militare, o uomo politico, fa solo ciò che fa la gente; fa solo ciò che "si" fa; pensa solo ciò che "si" pensa.

Se l’uomo che di fronte alla vita assume un atteggiamento estetico è quello che ha un temperamento estroso, sempre assetato di novità e originalità, l’uomo, invece, che assume un atteggiamento etico è quello che finisce nella banalità della vita metodica, ordinata, anzi, preordinata in ogni suo evento. Così, anche un uomo votato al dovere si può stancare di essere ligio e coscienzioso. In effetti, molte persone, raggiunta l’età matura, manifestano una reazione di stanchezza.

Alcune ricadono nello stadio estetico, altre, invece, fanno un salto ulteriore verso lo stadio religioso.

Secondo Kierkegaard, il passaggio dallo stadio etico allo stadio religioso può essere predisposto dal pentimento, cioè dalla coscienza della nostra colpevolezza, della nostra insufficienza morale. L'etica pura, che ci propone degli ideali assoluti difficili da realizzare, ci dice che dobbiamo essere sempre insoddisfatti di noi stessi, che non c'è niente nella nostra vita che sia interamente buono. Per questo, appunto, alla vita etica si accompagna inseparabilmente il pentimento per ciò che di imperfetto rimane nelle nostre azioni. Ma la coscienza della nostra insufficienza morale, e cioè il pentimento, a volte ci paralizza e ci lascia scoraggiati. Si può superare questa paralisi spirituale con l’esperienza religiosa, cioè accettando per fede che, malgrado le nostre debolezze, Dio è comunque in grado di cancellare i nostri peccati e di redimerci. Così il pentimento ci prepara per il salto nello stadio religioso.

Secondo Kierkegaard, l'uomo realizza veramente sé stesso come singolarità, come individuo, solo nella sfera religiosa.

Innanzi tutto, quando l'uomo si pone di fronte a Dio, deve abbandonare le finzioni, i mascheramenti e le illusioni. Si mostra a Dio e a sé stesso nella sua vera individualità, nella sua autenticità di peccatore. L’esperienza religiosa prova l’esistenza di un’interiorità nascosta nell’uomo, cioè di una dimensione interiore profonda e individuale, in cui avviene il rapporto personale con Dio. Inoltre, l'uomo che si pone solo davanti a Dio ha la possibilità di affermarsi come singolo, perché Dio può prescrivergli un comandamento singolare che sfida e offende le leggi dell'etica.

Qui Kierkegaard sta parlando dell'eroe religioso, cioè di colui che Dio ha scelto per una testimonianza unica e che riceve da Dio un comandamento assolutamente individuale. L'eroe religioso per eccellenza è Abramo, il padre dei credenti, primo patriarca del popolo ebreo. Abramo vive fino a 70 anni nel rispetto della legge etica. Solo allora viene premiato da Dio col miracolo di ricevere un figlio, Isacco, da Sara, la moglie ormai anziana, e vede dunque appagato il desiderio tanto vivamente sentito di avere una discendenza legittima. Ma Dio, per mettere alla prova la sua fede, gli ordina di sacrificare sull’altare questo figlio a lungo desiderato e sempre meritato con la fedeltà. Abramo non esita a intraprendere il sacrificio e decide di fare eccezione alla legge morale che prescrive di non uccidere. Sennonché, all’ultimo momento, interviene l’angelo del Signore e ferma la sua mano che sta per immolare Isacco.

Nella sfera religiosa c'e dunque una sospensione anche dell'etica. Ciò significa che nel momento in cui entriamo in rapporto con Dio, con il Fine supremo e ultimo della nostra vita, tutto il resto, anche la conformità alle regole etiche, deve eclissarsi: nella religione ci dobbiamo abbandonare completamente a Dio ed avere fede in Lui al di sopra di tutto, come fece Abramo, che era pronto a sacrificare il suo figlio Isacco per ubbidire unicamente a Dio, contro i dettami dell'etica. Non c'è dunque continuità fra la vita etica e quella religiosa. Tra esse, anzi, c'è un abisso ancora piu profondo che tra l'estetica e l'etica. La vita religiosa è esistenza vissuta al di fuori e al di sopra dell'etica, in conformità con la fede.

Kierkegaard distingue il gesto di Abramo (l’eroe religioso) da quello di Agamennone (l’eroe tragico). Agamennone è il comandante supremo dei Greci nella guerra contro Troia, che accetta il sacrificio della figlia per placare la dea Artèmide (la Diana dei romani). La vicenda di Agamennone è la seguente: la flotta greca deve trasportare gli Achei a Troia per punire la città del rapimento di Elena (moglie di Menelao, fratello di Agamennone), effettuato da Paride (figlio di Priamo, re di Troia). Ma la flotta rinvia la partenza di giorno in giorno per la mancanza di venti favorevoli. L’indovino Calcante attribuisce questo fatto alla collera di Artemide, dovuta a un’offesa che Agamennone ha fatto alla dea. Calcante rivela che Artemide si placherà solo se Agamennone gli sacrificherà la figlia Ifigenia. E così, per permettere la partenza degli Achei, Ifigenia viene immolata sull’altare della dea.

Secondo Kierkegaard, quella di Agamennone non è, come quella di Abramo, una scelta religiosa, perché rimane entro i confini della morale. Infatti, come capo degli Achei, Agamennone ha il dovere morale di salvare il suo popolo: nella sua scelta fra la responsabilità di capo e quella di padre, si scontrano due princìpi morali, ed egli ubbidisce a quello che è superiore all'altro. Abramo, al contrario, è andato oltre i confini dell'etica, del bene e del male. La sua è stata una scelta esclusivamente di fede.

Comunque, secondo Kierkegaard, nella fase religiosa ci lasciamo dietro l'etica, ma senza abolirla. Infatti Kierkegaard precisa che l’etica viene ben presto ripristinata dal comando singolare di Dio. Dio, infatti, ci fa compiere, per obbedienza di fede, gli stessi atti che ci sono imposti, sul piano subordinato dell'etica, dalla nostra ragione. Ma, nella sfera religiosa, il caso del comando eccezionale, scandaloso, è sempre possibile. La vita religiosa ha però un carattere incerto e rischioso: come può, infatti, l'uomo sapere se egli è l'eletto, al quale Dio ha affidato un compito eccezionale, che esige e giustifica la sospensione dell'etica? Secondo Kierkegaard c'è solo un segno indiretto di tale elezione: la forza angosciosa con cui questa domanda si pone all'uomo che è stato prescelto veramente da Dio. L'angoscia dell’incertezza è la sola assicurazione possibile.

Kierkegaard si è dapprima fermato a delineare gli stadi fondamentali della vita, presentandoli come alternative che si escludono a vicenda. Successivamente è stato condotto ad approfondire il tema centrale della sua filosofia, cioè l'esistenza come possibilità. Questo argomento è svolto nelle opere Il concetto dell'angoscia (1844) e La malattia mortale (1849).

La vita dell'uomo è fondata sulla scelta, sulla decisione tra possibilità diverse. Le possibilità caratterizzano l'esistenza della persona umana. La vita dell’animale è determinata dalle caratteristiche della specie a cui appartiene, corre sui binari della necessità. Invece, la vita dell’uomo non è già prefissata, non è guidata dall’istinto, ma è segnata dalla possibilità di scegliere. Nell’esistenza umana nulla è necessario: tutto è possibile, a differenza di quanto sostiene Hegel.

Kierkegaard ha però messo in luce gli aspetti negativi e distruttivi della possibilità. Scegliere una possibilità non significa garantirsi il successo per ciò che essa prospetta. Infatti una possibilità può sempre venir meno o non realizzarsi. E neppure la sua realizzazione è sicura e definitiva, perché nuove possibilità avverse possono sopraggiungere. Inoltre l'uomo vive immerso in un mare di possibilità minacciose: non c'è vita che si sottragga alla possibilità della morte; né stato di benessere che sia sicuro da ogni rischio; non c'è virtù o buona volontà che non sia soggetta alla possibilità del peccato. L'infinità e l'indeterminatezza delle possibilità future, in cui ogni possibilità favorevole è annientata dall'infinito numero delle possibilità sfavorevoli, fanno sentire all'uomo la sua impotenza. La possibilità distrugge ogni aspettativa e ogni capacità umana. Si rivela così l'angoscia, cioè il sentimento della possibilità. L'angoscia è il sentimento che si palesa dall'incertezza e dall'instabilità del futuro.

L'angoscia, a differenza della paura, che si riferisce sempre a qualcosa di determinato e cessa quando cessa il pericolo, non si riferisce a nulla di preciso e accompagna costantemente l’esistenza dell’uomo. Kierkegaard vive e scrive sotto il segno di questa incertezza: di fronte ad ogni alternativa, Kierkegaard si è sentito paralizzato per le infinite possibilità che gli si prospettavano. A suo giudizio, l’angoscia non è un sentimento che possa essere o non essere presente nell’uomo: l’angoscia è essenzialmente connessa all’esistenza umana, in quanto quest’ultima è divenire verso l’ignoto. L'angoscia è dunque letta come fondamento stesso della condizione umana, primigenio e ineliminabile.

La scoperta della possibilità, e quindi dell'angoscia, è stata risvegliata per la prima volta in Adamo dal divieto di Dio. Prima di ricevere da Dio il divieto di mangiare dell'albero del bene e del male, Adamo era innocente: non aveva, cioè la coscienza delle possibilità che gli si aprivano davanti. Quando riceve da Dio il divieto, acquista la coscienza di "poter" sapere la differenza fra il bene e il male. Diventa consapevole della possibilità della libertà. E l'esperienza di questa possibilità è l'angoscia. L'angoscia è a fondamento del peccato originale: l'angoscia, il sentimento delle possibilità che gli si aprono davanti, mettono Adamo nella possibilità di peccare, di infrangere il decreto divino.

Se l'angoscia domina i rapporti dell'uomo con la realtà, la disperazione domina invece i rapporti dell'uomo con sé stesso. Kierkegaard tratta della disperazione in La malattia mortale. La disperazione di cui parla Kierkegaard non è quella che una persona può provare quando perde un bene da lei ritenuto irrinunciabile. La vera disperazione, secondo Kierkegaard è invece quella che nasce dall'impossibilità, per un individuo, di convivere in modo armonico con sé stesso. Infatti se l’uomo decide di accettarsi per ciò che è, senza proporre di migliorare sé stesso, si imbatte subito nei propri limiti, si trova insufficiente. Se punta a cambiarsi, a migliorarsi, a volersi altro, scopre di non poter abbandonare sé stesso. Ne consegue, in entrambi i casi, la disperazione, definita "malattia mortale" non perché conduce alla morte, ma perché essa fa sperimentare all'uomo la sua incapacità di vivere, la sua non vita, la sua morte spirituale. La disperazione è il sentimento che accompagna la persuasione di una sconfitta inevitabile e irreparabile.

L’angoscia e la disperazione possono essere superate solo dalla fede, cioè dalla preghiera a Dio. La fede, secondo Kierkegaard, libera innanzi tutto dall'angoscia. Infatti, il credente non ha più l’angoscia del possibile, perché sa che il possibile è nelle mani di Dio, e quindi si rassicura. Ma la fede libera anche dalla disperazione. Infatti, Dio, al quale tutto è possibile essendo onnipotente, può riscattare l'individuo dai suoi limiti, può aiutarlo a realizzarsi, e così può liberarlo dalla disperazione riguardo a sé stesso. Come opposto della fede, la disperazione è il peccato. Il peccato consiste, infatti, nell'illudersi della propria autosufficienza, nel non riconoscere la dipendenza dell'uomo da Dio. Questa pretesa porta, appunto alla disperazione, perché l’uomo, secondo Kierkegaard, non può realizzarsi da solo, con le sue sole forze.

Ma anche la fede non può assicurare certezza e riposo, perché è assurdità, paradosso irrazionale e scandalo. La rivelazione cristiana non ha nulla di razionale o di plausibile. Per la ragione, infatti, è qualcosa di paradossale e scandaloso la fede in un Uomo che è insieme Dio, in un individuo storico che è insieme metastorico (cioè al di fuori della storia). Impensabile (da un punto di vista razionale) è anche l'intimo rapporto fra Dio e l'uomo. Infatti Dio è trascendente, e ciò implica una distanza infinita fra Lui e l'uomo, che sembra escludere qualsiasi familiarità. La fede crede nonostante tutto e assume tutti i rischi. Così, per esempio, fece Abramo: egli credette in forza dell'assurdo. Ebbe fede non solo per l’altra vita, ma anche per questa: credette che gli potesse essere restituito per miracolo ciò a cui rinunciava (la vita di suo figlio).

Nel pensiero di Kierkegaard, che rappresenta la rivincita della religione contro la filosofia, della fede contro la ragione, sembra di riascoltare l’affermazione del teologo africano Tertulliano del II secolo, al quale è attribuita la frase: "credo quia absurdum" ("credo perché è assurdo, perché è impossibile"). Secondo questo paradosso, scaturito da un fideismo antintellettualistico, i dogmi della religione vanno difesi con convinzione tanto maggiore, quanto minore è la loro compatibilità con la ragione umana.

Poiché la fede è irrazionale, Kierkegaard critica la concezione hegeliane o quella propria anche della chiesa luterana moderna, che cercano di conciliare ragione e fede. Secondo Kierkegaard, la teologia scientifica pretende infatti di spiegare l'inesplicabile. Inoltre, Kierkegaard criticò la chiesa danese che insisteva sull'osservanza delle regole esteriori. A suo giudizio, la vera religione è quella fondata sul rapporto diretto e interiore fra uomo e Dio.

La paradossalità della fede, la rinuncia all'uso dell'analisi razionale, qualificano la filosofia di Kierkegaard come irrazionalista, e ad essa guarderanno con interesse diverse tendenze del pensiero del Novecento, come, per esempio, l’Esistenzialismo. L’Esistenzialismo è un movimento filosofico che si affermerà in Europa, e precisamente prima in Francia e in Germania e poi anche negli altri paesi, nel periodo compreso fra le due guerre mondiali e negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, e che si fonda sull’analisi dell’esistenza umana (appunto già affrontata da Kierkegaard). L'opposizione principale tra l'idealismo e l'esistenzialismo è che mentre il primo pone l'essenza prima dell'esistenza, il secondo pone l'esistenza per prima, e l'essenza dopo. Nascerà un vero e proprio scontro che vedrà in Italia, per esempio, vincitori due idealisti molto diversi: Giovanni Gentile e Benedetto Croce.

Dunque, al termine della sua analisi, Kierkegaard è arrivato alla conclusione che le caratteristiche fondamentali dell’esistenza umana sono tre: l’angoscia, che domina il rapporto fra l’uomo e il mondo; la disperazione, che domina il rapporto dell’uomo con sé stesso, e il paradosso, che domina il rapporto dell’uomo con Dio.
 

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Tratto da: Sören Kierkegaard. Wikipedia, L'enciclopedia libera.