Seneca

 

Lucio Anneo Seneca, anche noto come Seneca o Seneca il giovane, (latino: Lucius Annaeus Seneca; 4 a.C. circa - 65) fu filosofo, politico e drammaturgo dell'antica Roma.

Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordoba, capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori del territorio italico, in un anno di non certa determinazione; le possibili date attribuite dagli studiosi sono in genere tre: l'8 a.C., tra il 6 e il 4 a.C., l'1 a.C.: sono tutte ipotesi possibili che si fondano su vaghi accenni presenti in alcuni passi delle sue opere (in particolare De tranquillitate animi e Epistulae ad Lucilium). La famiglia di Seneca, gli Annei, ha origini antiche ed è Hispaniensis, cioè non originaria della Spagna, ma discendente da immigrati italici, trasferitisi nella Hispania Romana nel II secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova provincia. La città di Cordoba, la più famosa e grande di tutta la provincia, aveva assimilato fin dalle origini l'élite economica e intellettuale della popolazione italica; intensi erano i suoi rapporti con Roma e la cultura latina.

Non si hanno notizie di esponenti della famiglia degli Annei coinvolti in attività pubbliche prima di Seneca. Il padre del filosofo, Seneca il Vecchio, era di rango equestre come attesta Tacito negli Annales e autore di alcuni libri di Controversiae e di Suasoriae; scrisse anche un'opera storica che però è andata perduta. A Roma egli costituì il luogo ideale per realizzare le proprie ambizioni. Al fine di rendere più agile l'inserimento alla vita sociale e politica dei figli, si trasferì a Roma negli anni del principato di Augusto, dove si appassionò all'insegnamento dei retori e diventò assiduo delle sale di declamazione. Sposò in età abbastanza giovane una donna di nome Elvia da cui ebbe tre figli:

  • il primogenito Lucio Anneo Novato, che prese il nome di Lucio Giunio Gallio Anneano dopo l'adozione da parte dell'oratore Giunio Gallio; intraprese la carriera senatoria e diventò proconsole sotto Claudio.

  • il secondogenito Lucio Anneo Seneca

  • il terzogenito Lucio Anneo Mela (padre del poeta Lucano), che si dedicò agli affari.

Lo stesso Seneca parla dei suoi fratelli: «Volgiti ai miei fratelli, vivendo i quali non ti è lecito accusare la fortuna. In entrambi hai quanto può allietarti per qualità opposte: uno, con il suo impegno, ha raggiunto alte cariche, l'altro, con saggezza, non se ne è preso cura; trai sollievo dall'alta posizione dell'uno, dalla vita quieta dell'altro, dall'affetto di entrambi. Conosco i sentimenti intimi dei miei fratelli: uno ha cura della sua posizione sociale per esserti di ornamento, l'altro si è raccolto in una vita tranquilla e quieta per aver tempo di dedicarsi a te.»

Seneca, fin dalla giovinezza, ebbe alcuni problemi di salute; era soggetto a svenimenti e attacchi d'asma che lo tormentarono per diversi anni e lo portarono a vivere momenti di disperazione, ricordandolo persino in una lettera: «La mia giovinezza sopportava agevolmente e quasi con spavalderia gli accessi della malattia. Ma poi dovetti soccombere e giunsi al punto di ridurmi in un'estrema magrezza. Spesso ebbi l'impulso di togliermi la vita, ma mi trattenne la tarda età del mio ottimo padre. Pensai non come io potessi morire da forte, ma come egli non avrebbe avuto la forza di sopportare la mia morte. Perciò mi imposi di vivere; talvolta ci vuole coraggio anche a vivere.»

E ancora: «L'assalto del male è di breve durata; simile ad un temporale, passa, di solito, dopo un'ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest'agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male "meditazione della morte": talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca la soffocazione. Pensi che ti scriva queste cose per la gioia di essere sfuggito al pericolo? Se mi rallegrassi di questa cessazione del male, come se avessi riacquistato la perfetta salute, sarei ridicolo come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo.»

Seneca ricevette a Roma un'accurata istruzione retorica e letteraria, come voleva il padre, anche se egli si interessava più che altro di filosofia. Seguì quindi gli insegnamenti di un grammaticus e in seguito ricorderà del tempo perduto presso di lui (Epistulae ad Lucilium, 58,5). Egli non ebbe dunque interesse per la retorica, anche se questo tipo di formazione gli servirà per la sua esperienza futura di scrittore.

Ebbe come maestri di filosofia Sozione, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo. Sozione era legato alla setta dei Sestii, fondata da Quinto Sestio in età cesariana e diretta poi dal figlio Sestio, che raccogli elementi di varia provenienza, in particolare stoica e pitagorica, e raccomanda ai suoi adepti una vita semplice e morigerata, lontana dalla politica; Attalo fu seguace dello stoicismo con influenze ascetiche; Papirio Fabiano fu un oratore e un filosofo, appartenente alla setta dei Sestii, con influenze ciniche. Seneca seguì molto intensamente gli insegnamenti dei maestri, che esercitarono su di lui un profondo influsso sia con la parola che con l'esempio di una vita vissuta in coerenza degli ideali professati. Da Attalo impara i principi dello stoicismo e l'abitudine alle pratiche ascetiche. Da Sozione, oltre ad apprendere i principi delle dottrine di Pitagora, è avviato per qualche tempo verso la pratica vegetariana; venne distolto però dal padre che era preoccupato per la cagionevole salute del figlio e anche perché l'imperatore Tiberio non amava che fossero seguite pratiche di vita non romane: «Sozione mi spiegò per quali motivi quel filosofo si era astenuto dalle carni di animali, e per quali motivi se ne era astenuto Sestio [...]. Mi sentivo l'anima più agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione. Vuoi sapere come vi ho rinunciato? L'epoca della mia giovinezza coincideva con l'inizio del principato di Tiberio: allora i culti stranieri erano condannati e l'astinenza dalle carni di certi animali era considerata come segno di adesione a questi culti. Mio padre, per avversione verso la filosofia più che per paura di qualche delatore, mi pregò di tornare agli antichi usi: e, senza difficoltà, ottenne che io ricominciassi a mangiare un po' meglio.»

Attorno al 26 d.C Seneca si recò in Egitto, dove stette per diverso tempo, anche se non è possibile stabilire esattamente quanto a lungo. Vi andò per curare le crisi di asma e la bronchite ormai cronica da cui era afflitto. Fu ospite del procuratore Gaio Galerio, marito della sorella di sua madre Elvia. Qui approfondì la conoscenza del luogo sia nelle sue componenti geografiche che in quelle religiose, come racconta nel Naturales quaestiones (IV, 2, 1-8). Il contatto con la cultura egizia gli permise di confrontarsi con una diversa concezione della realtà politica (in Egitto il principe era ritenuto un dio) e gli offrì una più ampia e complessa visione religiosa.

Nel 31, dopo essere tornato da un viaggio in Egitto, iniziò l'attività forense (dimostrando grandi capacità oratorie) e la carriera politica (divenne dapprima questore ed entrò a far parte del Senato). Le sue abilità, però, gli procurarono l'antipatia di Caligola che, geloso dei suoi successi, lo condannò a morte. Si salvò grazie all'interessamento di una favorita dell'imperatore, la quale convinse Caligola che Seneca sarebbe morto per un grave malattia di lì a poco. Nel 41, l'imperatore Claudio lo condannò alla relegazione in Corsica con l'accusa di coinvolgimento nell'adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola, la quale fu mandata a morte (in realtà si voleva colpire l'opposizione politica).

In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina, moglie di Claudio, riuscì a ottenere il suo ritorno dall'esilio e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone. Secondo Tacito sarebbero tre i motivi che spinsero Agrippina a questo: l'educazione di suo figlio, attirarsi le simpatie dell'opinione pubblica (Seneca era considerato uomo di grande cultura) e avere stretti rapporti con lui per riuscire ad impadronirsi del potere. Affiancato da Afranio Burro, prefetto del pretorio, che pure curò l'educazione del futuro imperatore, Seneca accompagnò l'ascesa al trono del giovane Nerone (54 - 68) e lo guidò durante il cosiddetto periodo del buon governo di Nerone, il quinquennio felice, ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione fra i poteri del principe e del senato.

Progressivamente tale rapporto si deteriorò e, verso il 62, dopo la morte di Burro, con Nerone ormai avviato alla fase conclusiva del suo regno, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente alla vita privata, dedicandosi ai suoi studi.

Ma Nerone nutriva sempre più una crescente insofferenza verso Seneca, da un lato, e sua madre Agrippina, dall'altro. Così dopo aver ucciso sua madre e Afranio Burro (nel 62) non si aspettava altro che un pretesto per mandare a morte anche Seneca. Nel frattempo Tigellino divenne nuovo prefetto del pretorio e Poppea iniziò ad esercitare notevole influenza sull'imperatore. Il pretesto fu la congiura di Pisone (aprile 65), di cui Seneca era forse solo al corrente, senza esserne partecipe e, condannato a morte, scelse di togliersi la vita. Si tagliò le vene, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e il denutrimento, non defluiva, dovette ricorrere al veleno usato anche dal filosofo Socrate, la cicuta. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire; così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di sangue e raggiungere una morte lenta e straziante, che arrivò per soffocamento.

Centro della riflessione di Seneca è l'uomo e la sua possibilità di raggiungere la serenità e la libertà interiore attraverso il dominio della razionalità sulle passioni. L'elaborazione di un nuovo linguaggio dell'interiorità da lui compiuta fu fondamentale per il pensiero cristiano.
 

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Tratto da: Seneca.  Wikipedia, L'enciclopedia libera.