Daniela
Tornato a casa mi sdraiai sul letto, e controllai l’ora. Le quindici e trenta. Avevo poco più di due ore di tempo prima di uscire nuovamente per andare a prendere la “Signora Assistente”.
Erano passati due giorni da quando avevo sentito per l’ultima volta Claudia, una telefonata molto breve, così provai a chiamarla. Il telefono diede il segnale di libero, ma non ricevetti alcuna risposta, come spesso accadeva negli ultimi tempi. Provai il solito senso di sgomento a cui ormai mi stavo, abituando. Quanto mi mancava. Continuavo a domandarmi perché la nostra storia non fosse mai decollata. Ma quasi per una forma di autodifesa, i miei pensieri tornarono al mio imminente viaggio verso Triora. Dovevo iniziare a prepararmi.
Mi alzai dal letto con una certa rapidità, cercai un vecchio disco di Keith Jarrett, “Le virtuose du piano”. Accesi l’impianto stereo e dopo pochi istanti le meravigliose note emesse dal pianoforte suonato da Keith risuonarono per tutta la casa.
Visto che avevo deciso di portare con me la mia Nikon, controllai che tutto fosse in ordine. Il livello delle batterie era al massimo della carica, le lenti degli obbiettivi erano pulite e le schede di memoria formattate. Come al solito, il mio era stato uno scrupolo eccessivo, ma era un modo come un altro per non pensare a Claudia.
Posai lo zaino con l’attrezzatura fotografica vicino alla porta di casa, e tornato in camera da letto, aprii il cassetto del mio scrittoio dal quale estrassi la mia Colt Government.
La Colt Government venne prodotta per la prima volta nel 1911 e fu per decenni la pistola d’ordinanza della polizia americana. Venne sostituita nel 1985 dalla Beretta 92S-1. Un raro gioiello del passato, la Colt, che aveva percorso a testa alta decenni di servizio al fianco dei detectives da cinema, come avevo sempre classificato i policemen americani.
Impugnai la pistola, uno strano brivido mi percorse la schiena. Era diverso tempo che non la tenevo più tra le mani. Ricordai lo sguardo spaventato di Claudia quando gliela mostrai la prima volta. Era nuda sul letto, mi alzai e la presi dal cassetto, lo stesso cassetto da cui l’avevo appena estratta ora.
La posai sul suo splendido ventre, la vidi ritrarsi, irrigidirsi. La baciai, mi gettò le braccia al collo e, quella sera, facemmo l’amore come non l’avevamo mai fatto. Come non l’avevo mai fatto.
A dire il vero la mia pistola, era solo una pistola a CO2, e cioè ad aria compressa, o meglio ad anidride carbonica. Una di quelle pistole che il ministero degli interni classifica come arma di modesta capacità offensiva.
Si trattava di una perfetta imitazione dell’originale, prodotta da una ditta tedesca su licenza della Colt. Forma, dettagli e peso erano identici al modello originario. L’unica differenza, da non sottovalutare, era la sua scarsissima capacità di offendere.
Di fronte ad un’arma vera non avrei avuto alcuna possibilità di sopravvivenza. Ma ciò sarebbe stato vero in ogni caso. Non avevo lo spirito del poliziotto e tanto meno quello del killer.
Ma l’ineccepibile somiglianza della riproduzione poteva almeno incutere timore.
Mi immedesimai nel ruolo del detective, quello dei film americani, l’unico che conoscevo e, con una certa ritualità, oliai i meccanismi, pulii la canna e quindi provai la pistola contro una delle ante della finestra. A tre metri di distanza era in grado di lasciare un piccolo foro di circa quattro millimetri nel legno.
Misi la pistola nella tasca esterna dello zaino fotografico. L’avrei portata con me. Mi buttai sotto la doccia, subito dopo aver pareggiato la barba.
Uscito da sotto l’acqua della doccia indossai l’accappatoio e guardandomi allo specchio pensai che in fondo, malgrado i miei quarantacinque anni, ero ancora un bell’uomo. Non avrei dovuto aprire l’accappatoio, che una volta aperto, mostrò senza pietà il mio stomaco rigonfio. Evidente segno dell’avanzare degli anni e dell’uso eccessivo di superalcolici.
Per mia fortuna l’occhio mi cadde sull’orologio, rischiavo di arrivare in ritardo. Erano le diciassette e venti.
Mi vestii rapidamente. I soliti bluejeans, maglietta a manica lunga nera, il nero “sfina” ma non abbastanza! Infilai le mie vecchie e consunte Geox e mi precipitai fuori casa. All’ultimo momento presi con me il PC portatile. Fortunatamente via Belfiore non era distante. Arrivai con sei minuti di anticipo.
Alle diciotto in punto si aprì il portone del civico quaranta. Quella che uscì era una donna affascinante. Jeans attillati, corti al ginocchio. Stivali con tacco medio alto. Top bianco. Camicetta nera allacciata poco sopra l’ombelico. Giacca in tinta portata sul braccio. Capelli biondi, corti, appena sopra le spalle, e sciolti che incorniciavano un musetto delizioso. Insomma un…, no, forse un… D’accordo “Daniela” mi dissi.
Ero incantato. La “Signora Assistente” del “Signor Direttore” aveva dismesso quei tristi tailleur da quarantenne acida e mostrava un corpicino da quarantenne desiderabile. Istintivamente ricontrollai il numero civico. Il quaranta. Non avevo sbagliato portone.
Con aria sbarazzina, aprì la portiera della mia vecchia Renault Laguna. Salì, prese posto sul sedile e disse: “E’ molto che aspetti?”. Deglutii e risposi: “No, sono appena arrivato!”. Grazie alla mia precisione ossessiva avevo già impostato il navigatore satellitare, un oggetto particolarmente utile, su Triora altrimenti avrei iniziato a girare in tondo, ero…, sì, questa volta Daniela, la “Signora Assistente del Signor Direttore”, mi aveva piacevolmente sconvolto.
Nell’autoradio, a basso volume, stava andando l’ultimo disco di Carla Bruni, “No promises”. Daniela cominciò ad intonare la canzone che suonava in quel momento. “Carla Bruni! La adoro” disse guardandomi. Mi accorsi all’ultimo momento che il semaforo di via Nizza da giallo era diventato rosso. Passai ugualmente fra i suoni adirati dei clacson di chi aveva il verde.