Il giornale

 

La mattina alle sette in punto mi svegliai ed istintivamente allungai una mano alla ricerca di Claudia, ma come spesso accadeva non trovai nessuno. Doveva essere andata via da diverso tempo, infatti il lato del letto che aveva occupato aveva perso il suo tepore.

Mi voltai dall’altro lato e cercai di addormentarmi nuovamente, cosa che negli ultimi tempi, forse a causa delle ingenti quantità di alcol che assumevo, mi riusciva abbastanza agevolmente.

Ma quella mattina aveva qualcosa di particolare. Cosa fosse lo scoprii solo alcuni giorni dopo.

Così, non riuscendo a riprendere sonno, intorno alle otto decisi di alzarmi.

Considerando i movimenti rallentati dalla sbornia, ancora non completamente smaltita dalla sera prima, calcolai che potevo essere fuori di casa intorno alle dieci. Un’ora più che buona per chi come me non aveva più un lavoro stabile.

Mentre preparavo il caffé decisi che sarei passato al giornale, per domandare ancora una volta cosa ne pensavano del mio reportage sulla “Torino sotterranea”.

La fotografia era sempre stato il principale dei miei hobbies, ed ora era anche un modo per sbarcare il lunario. Ogni tanto riuscivo a vendere qualche servizio alle testate locali, ed occasionalmente delle singole foto a scopi pubblicitari.

Dopo aver bevuto il mio caffé, rigorosamente senza zucchero, ed aver fatto una veloce tappa sotto la doccia, iniziai a vestirmi. In quel momento, qualcosa, o qualcuno, mi convinse che quella mattina dovevo portare con me l’unica compagna che da anni mi era fedele: la mia Nikon.

Approfittai della bella giornata, dal clima quasi primaverile, per andare alla redazione a piedi. “Benzina risparmiata”, fu il pensiero di quel momento. Arrivato negli uffici della redazione chiesi del direttore, e come al solito, passò più di un’ora prima di avere l’onore di conferire con il “Signor Direttore”, che ovviamente era indaffaratissimo, come si pregiò di farmi presente la sua “Signora Assistente”.

Finalmente venni ricevuto, con il solito sorriso smagliante, opera non di un semplice dentista ma di un vero “artista” dell’odontoiatria.

Il direttore mi comunicò senza troppi giri di parole di essere impegnatissimo, “Dunque, mio caro, veniamo subito al motivo della sua visita”. Inghiottii quel “mio caro” dalla erre arrotata con disinvoltura e senza proferire verbo.

“Abbiamo guardato con molta attenzione il suo reportage sulla Torino… ah, sì! Sulla Torino sotterranea. Belle foto, complimenti!”.

Erano tre anni che il suo discorso variava solo rispetto al tema: sotterranea, turistica, e così via. Continuò dopo una breve pausa: “Ma in questo momento la Torino sotterranea, non susciterebbe grandi interessi”.

A questo punto intervenni , non per controvertire le sue teorie, ma semplicemente per avere la possibilità di riconquistare l’uscita. In quel momento avevo una gran voglia di uscire, impugnare la mia Nikon e scattare qualche foto.

Mi limitai a dire: “Nessun problema Direttore, capisco perfettamente, sarà per un’altra volta. Non le rubo altro tempo.” Mentre dicevo queste parole mi ero alzato tendendogli la mano in segno di saluto, pronto a lasciare quanto prima il suo ufficio.

Mentre mi stringeva la mano mi guardò negli occhi: “Sono disposto ad acquistare da lei un reportage sulla Torino magica, mi piace il suo modo di fotografare. Se la sente?”. Risposi prontamente: “Ci proverò. Arrivederci direttore!”.

La Gran Madre distava non più di un chilometro dagli uffici del giornale, così decisi di farci un salto, sapevo che la chiesa veniva spesso associata alla magia, ed avendo bisogno di soldi, l’idea lanciata dal direttore andava se non altro esplorata e valutata: la Torino Magica, bianca o nera?

Nel salire i pochi gradini che separano il piano stradale dall’ingresso del luogo sacro, inciampai, la solita storta che prendo ogni volta che un sassolino mi finisce sotto il tallone sinistro. Ma questa volta non si trattava di un semplice sassolino.

Mi chinai a raccoglierlo e riconobbi subito che si trattava di una runa, non che fossi un esperto, ma qualcosa avevo letto su quei misteriosi segni.

Mi sembrò si trattasse di “Reid” dalla forma simile ad una erre in stampatello maiuscolo, la prima lettera del mio nome. La runa di Thor, il dio della folgore e del tuono, che rappresenta l’intelligenza cosmica che impedisce all’ordinamento del cosmo di ritornare al caos.

Decisi di non entrare in chiesa, misi la runa in tasca, scattai una foto alla facciata della chiesa e mi incamminai verso casa.

La caviglia mi doleva, ma i miei pensieri in quel momento erano rivolti ad altro. Volevo tornare a casa e cercare un vecchio libro sulle rune che mi regalò mia madre in occasione dei miei diciotto anni.

Avevo una strana sensazione.