Il metodo...

 

Pochi minuti dopo aver lasciato Daniela, giunsi a casa. Improvvisamente mi sentii stanchissimo, probabilmente a causa delle tensioni degli ultimi tre giorni.

Decisi di rilassarmi qualche istante prima di infilarmi sotto la doccia. Mi spogliai e mi stesi sul letto. Istintivamente cominciai a ripercorrere gli eventi e le immagini che avevano popolato i giorni appena trascorsi. Erano troppi e troppo concentrati per poterli affrontare in questo modo; né le mie conoscenze del mondo religioso né di quello esoterico erano sufficienti a chiarire i dubbi che frullavano nella mia testa.

Decisi che l’unico modo per capire quale sarebbe stata la prossima mossa era quello di procedere per passi. Dopo pranzo, con l’aiuto di Daniela, avrei cominciato ad analizzare tutti gli elementi in maniera razionale.

Fortunatamente la mia esperienza professionale mi forniva gli strumenti per applicare una metodologia che mi permettesse di mettere ordine in quell’insieme di possibili indizi che tutto sembravano essere tranne che logicamente coerenti.  Un quarto di secolo di duro lavoro nel mondo dell’informatica sarebbe finalmente servito a qualcosa.

Mi alzai dal letto ed iniziai a preparare gli indumenti che avrei indossato durante il resto della giornata, quindi pareggiai la barba, forse non era necessario ma quell’operazione per me era una specie di rito. Un rito che aveva il potere di allentare le tensioni. Subito dopo mi infilai sotto il getto d’acqua tiepida della doccia, solo allora scoprii che avevo quasi del tutto esaurito il bagnoschiuma.

Chiusi l’acqua,  indossai l’accappatoio e mi asciugai. Mi spruzzai sulla pelle un poco di profumo, l’unico rimasto, e non potei fare a meno di pensare a Claudia, al natale scorso quando mi disse: “Non so più cosa regalarti, ormai credo di averti regalato tutto”. Quello che non mi aveva mai regalato era una storia vera, l’unica cosa che avrei realmente desiderato.

Dopo essermi vestito, gettai uno sguardo all’orologio. Rispetto all’appuntamento con Daniela ero in netto anticipo. Decisi di uscire ugualmente, avrei comprato le sigarette e fatto due passi per San Salvario, un quartiere, che aldilà della pessima nomea, avevo sempre trovato affascinante sia dal punto di vista architettonico sia per la varietà delle etnie che vi si potevano incontrare.

Parcheggiai vicino al Santuario del Sacro Cuore di Maria, poco distante dalla casa di Daniela e mi avviai lungo via Belfiore. A quell’ora della domenica non c’era molta gente in giro. Arrivato ad un certo punto deviai verso via Nizza dove sapevo che avrei trovato un distributore automatico di sigarette. Una volta acquistata la mia dose di nicotina, chiamai Daniela comunicandole che sarei arrivato nel giro di pochi minuti.

Daniela uscì dal portone puntualissima, mi affibbiò un bacio su una guancia e domandò: “Allora, detective, da dove cominciamo?”.

“Dal pranzo tesoro. Ho un certo appetito”. Dovetti incassare in silenzio il suo: “Potevi fare colazione questa mattina, tenente”.

Decisi che, se mi avesse chiamato tenente un’altra volta, l’avrei lasciata lì dove ci trovavamo senza nemmeno salutarla: “Possiamo mangiare qualcosa al selfservice giapponese, non ricordo come si chiami, ma non è male. Poi un salto in libreria e quindi si torna a casa per iniziare a lavorare, Dani”.

“Come vuoi, tenente”. No, lasciarla lì sarebbe stato inutile, era solo a pochi passi da casa sua, troppo vicino. La presi sottobraccio e ci incamminammo verso la Laguna.

La nostra permanenza al Lingotto, uno dei centri commerciali di Torino, un bell’esempio di recupero dell’architettura industriale, fu piuttosto breve. Il tempo di consumare un piatto misto della cucina nipponica, o presunta tale. Un salto da Feltrinelli per acquistare i testi suggeriti da mia madre, fra gli sguardi divertiti della cassiera di fronte a tanto sfoggio di libri sulla “magia” e quindi il ritorno verso casa mia.

Una volta in ascensore avvisai Daniela che la casa era in condizioni disastrose. Era da un po’ di tempo che non la riordinavo e soprattutto che non la pulivo.

“Sarà la tipica casa di un uomo che vive da solo. Non preoccuparti, so cosa mi aspetta!”.

Era indisponente. Avrei voluto rispondergli “Già, immagino tu ne abbia frequentate molte!”, ma mi trattenni. Ed uscito dall’ascensore aprii la porta.

“Hai una luna appesa alla porta!”. Esclamò meravigliata. “Si, credo che questa sia una luna”. Risposi con tono scontroso.

Appena entrati in casa, fatto il giro di rito dell’abitazione, dovetti sorbirmi per l’ennesima volta i soliti commenti sulla mia casa, riassumibili più o meno così: “Si vede che questa casa è stata messa su da una donna…”. “Ma davvero l’hai arredata tu? Tutto da solo?”. “Allora devi avere una forte componente femminile…”. E così via.

La mia casa è stata arredata da me. E’ vero, alcuni oggetti, successivamente all’impostazione iniziale, sono stati aggiunti insieme a Claudia. Ma quello che non capirò mai è perché per arredare decentemente un appartamento sia necessaria una donna, o , in mancanza di tale presenza, perché se un uomo ha buon gusto debba essere per forza tendenzialmente molto femminile.

Interruppi bruscamente i discorsi di cui sopra, cercando di riportare Daniela su quello che presumibilmente era l’obbiettivo del pomeriggio: cercare di individuare il prossimo passo di quello strano “viaggio”.

“Va bene, capo. Come vuoi, mettiamoci al lavoro. Da dove cominciamo?”.

Mi domandai se stavo cominciando ad avere istinti omicidi. Dopo mia madre avrei strangolato volentieri anche Daniela. Ma due donne uccise nello stessa giornata avrebbero fatto di me un neo serial killer.

Ripresi il discorso spiegandole che, dal momento che non avevamo un’idea precisa, e che avevamo invece un elevato numero di elementi da analizzare apparentemente senza alcun legame tra loro, il modo migliore di procedere era quello di effettuare una analisi di tipo top-down per poi cercare le connessioni tra ogni singola informazione applicando una metodologia chiamata Entity-Relationship.

Daniela mi guardò pensierosa: “Fai spesso uso di stupefacenti?”.

Così mi ritrovai a spiegarle alcune metodologie di analisi utilizzate in informatica. Appena terminata la mia spiegazione, Daniela esordì con: “Renato! Potrebbero volerci mesi per fare tutto ciò. Lo trovi sensato?”.

Questa volta darle torto era difficile, i cinque lustri di informatica non mi sarebbero serviti a nulla: “Si, forse hai ragione. Va bene tentiamo la fortuna. Cominciamo dall’Abbazia di Boscodon.  Che ne pensi?”.

“Si, mi sembra una buona idea. Come ci organizziamo?”.

“Intanto scarichiamo le fotografie fatte ieri”.

Decisi di utilizzare il portatile. Avremmo avuto più spazio in cucina dove potevamo sfruttare l’ampio tavolo invece che nell’angolo angusto dov’era collocato il computer fisso. Accesi anche quest’ultimo in modo da sfruttare le stampanti condivise attraverso la mia rete Wi-Fi.

Analizzando le fotografie emersero alcuni elementi sui quali indagare: la croce templare, che risultava particolare se non altro per la collocazione in un’abbazia benedettina; la strana A, che aveva una peculiarità: il tratto orizzontale non era dritto ma leggermente incurvato verso il basso, rendendola molto simile all’immagine stilizzata di un compasso, simbolo utilizzato dai “maestri costruttori”; in ultimo l’ostensorio posto nella cappella di destra ed indicato sul depliant informativo dell’Abbazia come il “Santo Sacramento”.

Anche se in apparenza la cosa non appariva importante, confrontai la fotografia del crocefisso scattata il giorno prima con quella scattata in occasione di una precedente visita effettuata con degli amici. Come ricordavo, i due crocefissi erano profondamente diversi.

Mentre stampavo le fotografie, Daniela iniziò a sfogliare il libricino consegnatoci da Valerio, facendo una scoperta: vi erano altre cinque croci templari esposte nell’Abbaye.

“Dai uno sguardo qui!”. Daniela mi mostrò l’immagine di un dettaglio del piano dell’altare maggiore sul quale era posta, in un angolo, una croce templare. Il testo, tradotto da Daniela, diceva: “Per consacrare l’altare vennero tracciate cinque croci, una al centro a simboleggiare la comunicazione fra il cielo e la terra. Quattro agli angoli, come per consacrare e riunire le quattro parti del mondo”. Quale legame poteva esserci fra quelle croci templari e l’Abbazia di Boscodon?

Mi collegai ad internet e chiesi a Daniela di fare una ricerca sull’Abbazia e gli eventuali legami con l’Ordine dei Templari. Io nel frattempo avrei cercato un libro sui Templari che ricordavo di possedere.

Su internet non vi era alcuna traccia del possibile collegamento fra l’ordine cavalleresco e l’abbazia. Sembrava quasi che le croci, così evidenti, fossero volutamente ignorate.  Trovato il libro che cercavo: “Templari e Rosacroce”, avemmo la conferma della disputa tra Benedettini e Templari: “…, ed ancora a dare un altro cenno dell’ambiente, occorre non dimenticare gli Ordini Monastici, primo fra tutti quello dei Benedettini, antagonisti dei Templari…”.

Sembrava fossimo giunti ad un punto morto, quando Daniela, che testardamente aveva continuato a cercare in rete, disse: “Leggi qui, tenente!”.

Si trattava di una pagina web relativa ad un itinerario turistico, in particolare ad un trekking in cui si parlava di Boscodon. Ma la cosa interessante era sintetizzata in poche righe: “… è alla fine del XIV secolo…, che essa si unì all’abbazia benedettina di San Michele della Chiusa in Piemonte…”.

Finalmente avevamo trovato qualcosa: “Sei grande, Dani!”.

“Ti dice qualcosa il nome di san Michele della Chiusa?”.

“Si, credo che in realtà si tratti dell’abbazia più nota con il nome di Sacra di San Michele. Si trova in Val di Susa, a pochi chilometri da Torino”. Verificammo immediatamente la mia ipotesi avendo conferma di quello che pensavo.

Ora dovevamo iniziare a raccogliere informazioni sulla Sacra. Ma la prossima tappa era ormai individuata.